
(L)otto marzo: la strada percorsa, la strada ancora da fare
(Giornata internazionale delle Donne, 8 marzo 1978)
L’8 Marzo, si festeggia la «Festa della Donna» anche se l’accezione di festa non è propriamente corretta.
Il nome corretto di questa giornata particolare è «Giornata Internazionale della Donna» che è stata celebrata per la primissima volta il 28 febbraio del 1909 negli Stati Uniti grazie all’iniziativa del Partito Socialista Americano che scelse questo giorno per ricordare le migliaia di operaie newyorkesi che, l’anno prima, avevano manifestato in piazza per rivendicare con forza migliori condizioni lavorative.
Dal 1911 questa stessa ricorrenza è stata introdotta anche in alcuni paesi europei come Austria, Svizzera, Danimarca, Germania.
In Italia la «Giornata Internazionale della Donna» si è festeggiata per la prima volta il 22 marzo 1922, periodo in cui le donne non avevano ancora diritto di voto (con l’avvento del fascismo e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la speranza di questo traguardo venne ulteriormente indebolita).
Nel 1944 fu istituita l’UDI (Unione Donne Italiane) e, nelle zone liberate dal fascismo, si decise di celebrare, per l’anno successivo, la Giornata della Donna. Successivamente, nelle elezioni amministrative (10 marzo 1946) e al referendum politico del 2 giugno dello stesso anno, le donne italiane furono finalmente ammesse alle urne. E’ in questo contesto che, su proposta di donne come Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei è stata identificata la mimosa come simbolo ufficiale della lotta, scelta che è da ricondursi alla stagione di fioritura di questo fiore che avviene sempre nei primi giorni di marzo: il colore giallo diventa, in questo contesto, metafora delle donne che si sono battute per l’uguaglianza di genere poiché il colore rappresenta proprio il passaggio dalla vita alla morte.
Infine, fu l’ONU ad istituzionalizzare tale giornata e a dichiarare il 1975 «anno internazionale delle donne» proponendo come data comune l’8 marzo per celebrare l’evento, invitando tutti i paesi membri a dare spazio a tale ricorrenza.
La giornata internazionale della donna ha quindi una storia molto complessa fatta di traguardi e lotte, molto diversa dal modello proposto attualmente che, soffocando con auguri scherzosi e scambio di mimose l’ideale storico, ha perso la sua funzione commemorativa.
Perché, se è vero che lotte passate ci appaiono indiscutibili, specialmente quando solo lontane nel tempo (pensiamo a Emmeline Pankurst e le sue figlie, arrestate perché lottavano per il suffragio universale o Martin Luter King, assassinato dai suprematisti bianchi o ancora a Marsha P. Johnson, fra le prime attiviste LGBTQ, uccisa negli anni 70 perché trans) è anche vero che per molti (uomini e donne) la parità è ormai consolidata perché abbiamo ottenuto diritti che un un tempo ci erano negati come ad esempio quello di voto, il diritto di veder identificata la violenza sessuale come atto contro la persona e non contro la morale (come invece è stato fino al 1996), il divorzio, il diritto di aborto. All’interno di questa retorica è diventata consuetudine quindi pensare che questo giorno sia riducibile ad una festa consumistica come tante.
È importante invece sottolineare l’importanza di questa commemorazione come necessità di «fare memoria» che ci permetta di ricordare, ogni anno, quanto i diritti di cui godiamo abbiamo in sé un trascorso di negazione, lotte e rivendicazione e soprattutto quanto gli stessi, non siano da dare per scontato.
Questo giorno di memoria ci ricorda quindi la strada fatta fino a qui costellata di conquiste sociali, economiche e politiche, ma anche la lunga strada che ancora abbiamo da compiere per abbattere stereotipi e discriminazioni di cui le donne sono ancora oggetto nella nostra società. Deve essere quindi, per tutte e tutti, uno strumento politico di lotta alla discriminazione e alle ingiustizie che ancor oggi ci riguardano.
È vero, tanti diritti sono stati acquisiti (con determinazione, lotta e sacrificio di molte donne) ma è altrettanto vero che ancora oggi la nostra società risente della cultura patriarcale, diventata un recinto invisibile – ma soffocante – all’interno del quale le donne, sin da piccole, vengono educate a rispettarne le regole più o meno tacite.
foto di Piazza Castello, manifestazione “non una di meno”, 8 marzo 2021
Il patriarcato – che porta con sé sessismo, misoginia e cultura della sopraffazione – crea l’illusione dell’armonia tra i sessi, poiché le donne vengono cresciute con l’idea che se si rispetta la narrazione ordinata dei ruoli prefissati, tutto è più semplice e “naturale”.
Il patriarcato vuole donne docili e sorridenti, gay silenziosi, neri impercettibili.
In questo senso, non si accetta realmente il diverso ma, bensì, si «tollera» se (e solo se) quest’ultimo rimanere discreto, non avanza proposte, non incrina il tacito contratto di subalternità intrinseca nella sua natura. La donna quindi deve essere necessariamente: emotiva, eterosessuale, curata, materna, elegante, sexy e accomodante, per poter essere tollerata, appunto.
Il patriarcato vuole che la donna sappia quello che i maschi pensano di lei e che, in funzione di tali informazioni, si uniformi così da non incorrere in giudizi moralistici .
Tale contesto viene esasperato dalla mancanza di coscienza di genere che porta proprio alcune donne inconsapevoli, ad avallare, accettare, alimentare – per prime – questo circolo vizioso, con le topiche frasi « si è sempre fatto così» o « lo dico da donna».
Così, in questo videogame tra i sessi, non di rado si assiste a donne che imparano a gareggiare tra loro per accaparrarsi il trofeo di più bella, più forte, più giusta, rispetto allo sguardo degli uomini. Le donne imparano ad odiarsi, invidiarsi, giudicarsi tra loro, tenersi reciprocamente a distanza.
Ed è in questo specifico momento storico di maggiore libertà – in cui la cultura patriarcale è vaporizzata nell’aria in maniera quasi impercettibile – che la violenza contro le donne rappresenta una delle manifestazioni più tangibili della diseguaglianza di genere.
Il femminismo, che pare un argomento «per sole donne», è in realtà un percorso di liberazione che non fa distinzioni di genere e che può e deve essere sostenuto anche dagli uomini che potranno beneficiare anch’essi di una società più equilibrata, libera e meno violenta.
Per questi motivi è quindi necessario mantenere alta l’attenzione e la lotta a favore dell’ autodeterminazione personale, della parità di condizioni salariali, della libertà di poter scegliere se essere o meno relegate al ruolo di cura, senza che questo venga definito come una “qualità a cui siamo naturalmente portate”.
In conclusione ognuno di noi può e deve assumersi la responsabilità della propria crescita personale e dell’evoluzione della società.
Con queste doverose premesse e con l’auspicio che ci sia maggiore equità, una maggiore libertà e maggiore giustizia sociale come frutto di atti concreti a livello politico e sociale.. che sia (L)otto Marzo per tutte e tutti, sempre!
*Luce*